Nel soffuso chiarore del primo mattino, assaporò l’ odore di pulito.

Percorrendo con lo sguardo l’ordinata simmetria dei mobili, scoprì un libro lievemente spostato dagli altri, resistette all’ impulso di scendere dal letto e metterlo a posto “Piccole cose, piccole cose!” Disse ad alta voce ed inghiottì il disagio che gli si arrampicava nella gola.

Dopo due anni di terapia  (due anni durissimi di incubi, notti con gli occhi spalancati aspettando che venissero a punirlo per aver tradito l’ordine) aveva fatto molti progressi, non si alzava più due tre volte la notte a verificare di aver effettivamente sprangato il portone, non sentiva più tranne nei giorni meno buoni, quei tamburi, quei canti lamentosi.

Ma ancora non era convinto di poter rinunciare ai suoi riti; anche se il dottore non lo sapeva, teneva i semi di mela nel calzino sotto il cuscino ed il sale grosso ancora veniva sparso ai quattro angoli della casa. Comincia con le piccole cose gli avevano detto, solo che le piccole cose che intendevano loro, erano i cardini della sua esistenza.

Scese dal letto ed infilò velocemente le ciabatte buttate ai piedi del letto, gli sudavano le mani; la paura che quella disobbedienza  potesse aprire il cancello, non lo abbandonava mai. Passò davanti allo scaffale dei libri, mordendosi le labbra, quel libro fuori posto l’avrebbe tormentato tutto il giorno.

“E’ tutto a posto!” Si disse “Sarà una giornata normale e felice!”

Preparò la caffettiera, prese la tazza rossa (quella verde per il thè quella azzurra per le tisane) ed andò a farsi la barba. Uscì dal bagno molto più ben disposto verso il mondo, fresco e profumato gli sembrava che niente potesse nuocergli, lo avvolgeva una piacevole sensazione di leggerezza.

Sì poteva farcela, in fondo aveva ragione il dottore, le sue erano manie proiezioni di  un disturbo che se ci si metteva d’ impegno e sopratutto se ci credeva, sarebbero non osava sperare scomparse, ma tenute sotto controllo. Si sorprese a fischiettare un gingle pubblicitario.

L’aroma del caffè, una costante deliziosa emozione che immutata nel tempo lo accompagnava, il miele il pane tostato, non l’avrebbero abbandonato mai  erano i suoi fedeli amici. Si sentiva euforico ed aveva fame, si sedete con la tazza fumante davanti e diede un morso alla fetta di pane diligentemente spalmata di miele.

Quello che vide dalla vetrata della terrazza lo paralizzò, deglutì e briciole di quel che aveva in bocca, si infilarono come schegge nella trachea facendolo soffocare. Cominciò a tossire cercando di respirare ma solo un filo sottilissimo ed insufficiente di aria riusciva a passare, tossì cadendo carponi sul pavimento il volto sempre più viola, spruzzò briciole e saliva sul tappeto, sul divano, ovunque e con un ultimo raschiante colpo di tosse, espulse l’ostruzione.

Ragliando aspirò voracemente; rimase a quattro zampe ansimando con la gola in fiamme, quando ebbe recuperato la calma, volse la testa alla terrazza e il suo terrore divenne concreto.

Un essere coperto di squame, lo fissava immobile. La cresta che dalla testa scendeva fino alla lunga coda, era rossa le zampe finivano in tre dita artigliate; la pupilla fissa da rettile lo scrutava. Venne risucchiato in un viscido vortice verde, sentiva sulla pelle il freddo contatto delle squame.

L’avevano osservato ed avevano mandato quel mostro a punirlo.

Gattonando come un bambino scappò in camera, solo lì ebbe il coraggio di alzarsi in piedi. Aprì il cassetto del comodino, prese la tartaruga di giada la fece girare tre volte davanti alla faccia e se la mise in tasca, un freddo terrore gli ghiacciava le viscere. Si morse l’interno delle guance succhiando il gusto ferroso del sangue, frugò nel cassetto e trovò la collana d’argento con il corno di corallo, se la mise al collo bisbigliando.

E adesso?

Poteva scappare, ma dove poteva andare? Non aveva amici o parenti ed in ogni caso se avevano mandato un demone, l’avrebbero trovato, ovunque.

Spacciato, era spacciato! Inconsciamente era arrivato alla  libreria ed aveva sistemato il libro in riga con gli altri. Perchè gli era venuto in mente di rivolgersi ad uno psicoterapeuta? Era al sicuro ed ora…..

Andava su e giù per la stanza si tirava i capelli, poi di colpo si fermò: gli sembrava di sentire  raspare alla porta . L’ idea di quel corpo viscido le zampe che gli dilaniavano la carne, quell’occhio fisso scatenò in lui un furore cieco, l’istinto di sopravvivenza sovrastò il terrore. Con un grugnito spalancò la porta: niente.

Percorse in punta di piedi il breve corridoio, il cuore gli martellava nelle orecchie, la bocca arida. Si sporse dallo stipite della porta e guardò in giro, la terrazza da quel punto non si vedeva per intero, non gli riusciva di scorgere il rettile.

Avanzò cautamente, in un bagno di sudore, pensò che doveva fare una doccia. La cucina era un disastro, spruzzi di fetta biscottata masticata, insozzavano il tavolo, il divano, macchie che non sarebbero andate via facilmente; nel panico aveva rovesciato il caffè che ora dalla tavola, gocciolava sul pavimento formando una pozza marrone. Con due passi attraversò la cucina, prese dal cassetto il coltello da carne, la vista della lunga lama affilata lo rassicurò, ebbe il coraggio di guardare fuori.

L’ essere era lì, non si era mosso di un millimetro e lo guardava. Emanava una vibrazione di odio che poteva percepire benissimo anche attraverso il vetro.

Doveva agire, se era finita per lui, non sarebbe rimasto inerte, avrebbe lottato! Si slanciò verso la porta a vetri l’aprì e con un salto fu addosso all’essere, urlando cominciò a colpire e colpire fino a che il braccio non gli spedì una fitta di dolore lancinante alla spalla.

Si fermò ansando, scosso da un tremito convulso, la vista annebbiata. Guardò i resti del mostro sparsi per la terrazza: non c’era una goccia di sangue, stupito raccolse una zampa. Plastica! Il demone, il mostro altro non era che un pupazzo di plastica finito la Dio sa come! Si rigirava la zampa tra le mani, la guardava mentre dallo stomaco arrivava un brontolio cupo che eruttò una risata isterica.

Cadde in ginocchio,continuando a singhiozzare di quel riso inquietante, prendeva i pezzi e li scagliava lontano seguendone la parabola  con gli occhi velati di lacrime

Non si accorse del pezzo di cornicione che gli frantumò le vertebre del collo, non vide quegli occhi rossi che lo scrutavano dal tetto, non sentì quei tamburi, quel canto malsano